lunedì 13 febbraio 2012

Dio vs. Whitney Houston




Quando muore un personaggio famoso, la tua vita viene invasa dal cordoglio di tutte le persone che, senza essere necessariamente fan, si sentono in dovere di condividere un pensiero accigliato e compunto sulla morte e la giovinezza (o la morte e la vecchiaia, a seconda dell’età). E, dopo a una prima reazione di dispiacere subentra una reazione di fastidio per il moltiplicarsi incontrollato dei vari R.I.P., adesso canterai con gli angeli, la tua musica resterà per sempre nei nostri cuori, etc. 
Ieri mattina, ho scoperto al momento stesso di aprire la mia pagina facebook che Whitney Houston è morta, venendo letteralmente sommerso da una profluvie di lamenti telematici, di foto e video condivisi, di ricordi di giovinezza degli anni Ottanta. Roba da porsi delle domande serie sulla vita sociale dei propri amici, visto che a occhio e croce molti di quei post sono stati messi in linea durante la notte.
Per fortuna che a volte ci sono interventi che ti aiutano a inquadrare l'accaduto in un contesto più ampio. A questo proposito un trafiletto pubblicato sul sito ultracattolico Pontifex* ci propone una prospettiva nuova, al di là delle autopsie e delle storie lacrimevoli della cantante sfortunata segnata dal destino. Il sito ripesca dal Messaggero la notizia che Whitney Houston si era recentemente convertita all’Islam, e non ci mette molto a fare due più due (cito):

E pensare che, come riportato sul Messaggero*, la Houston aveva ritrovato la serenità convertendosi all'Islam.
La notizia, diffusa nel recentissimo Febbraio, aveva trovato anche molta risonanza sui siti islamici americani che, con grande esultanza, accoglievano una nuova star.
La stessa Houston, secondo indiscrezioni, avrebbe dichiarato di aver trovato nell'Islam una dimensione di serenità, dopo le pesanti vicende personali che l'avevano vista coinvolta.
Ecco i risultati.
Monito di Dio? Chi può dirlo, a noi non è dato conoscere certe dinamiche, anche se la vicenda e la triste coincidenza parlano chiaro.

Ora, a parte che se voleva darle un monito Dio ci è andato giù pesante, e a parte la follia conclamata dell’autore, un’opinione come questa ci dà un’idea della svolta postmoderna nelle relazioni tra Dio e i suoi fedeli.
Consigliato da un esperto sondaggista (forse proprio Klaus Davi), Dio deve avere individuato il suo target principale nelle vecchiette pettegole dai capelli azzurri e negli omosessuali repressi e tando devodi, la cui lettura principale è Chi piuttosto che la Bibbia. Solo loro avrebbero potuto custodire nella memoria una notizia inutile passata inosservata al resto del mondo impegnato in pensieri più mondani (la crisi?) per collegarla fulmineamente al momento della morte della povera Whitney. Sono questi animi miti e umili che, trascorrendo delle vite oscure, caratterizzate dalla negazione di se stessi, costituiscono non già il sale, ma la brillantina e la lacca della terra. E attraverso le loro emissioni di CO2 affrettano la venuta dell’Apocalisse.

Grazie, Pontifex, per averci aperto questo spiraglio nel piano della Provvidenza, e per aver assestato un altro colpo alla credibilità della religione cattolica.

domenica 2 ottobre 2011

Croccante fuori, morbido dentro





Mentre la finanza europea corre verso il baratro, e il calendario mi spinge allegramente verso la disoccupazione, perdiamo per un istante di vista il pane e occupiamoci delle brioches.

Da tre settimane stiamo guardando l’ennesima edizione di MasterChef. Che si tratti della versione celebrity per noi non cambia niente, perché, ovviamente, le celebrities sono a malapena conosciute nel loro paese di origine. (Ovviamente, nell’introduzione i giudici dicono che «these celebrities have already reached the top of their professions», ma finora solo in due casi – un ex atleta olimpico e il batterista dei Supergrass – la professione in questione era diversa da starlette/concorrente di altri reality/tv personality [?]).

Dopo varie serie guardate con entusiasmo, comincio a sperimentare un po’ di straniamento rispetto allo show. Le principali attrattive di MasterChef (ovviamente tutto questo cambierà nella versione italiana) sono un’assoluta mancanza di melensi background, una quasi totale assenza di lacrime, un montaggio molto serrato, che in genere lascia poco spazio alle parole in favore della visualizzazione della preparazione delle ricette, interrotte qua e là da brevi interviste in itinere agli aspiranti cuochi da parte dei due giudici.

In questo pregio formale è però anche il limite di MasterChef, la ragione del mio progressivo straniamento. Lo spazio limitato accordato agli interventi parlati, infatti obbliga per forza di cose alla sintesi estrema delle domande e delle risposte. Ma il problema della sintesi non è risolto – o non lo è più – con una ricerca di concisione significativa, bensì con una sorta di formularità delle domande e delle risposte da fare invidia alla tradizione epica da Omero in poi.

A volte penso che sarei in grado di doppiare gli episodi senza sapere chi siano i concorrenti né cosa stiano cucinando. Sembra, per esempio, che per obbligo contrattuale la frase «the pressure is on!» debba essere ripetuta (con alcune variazioni) un certo numero di volte da personaggi diversi nel corso di una puntata. Nella prima settimana, quando c’era una concorrente particolarmente incline alla ripetizione, abbiamo contato almeno 6 «the pressure is on!» su 45 minuti. Roba che, se la prendessi sul serio, ti farebbe venire un infarto.

Il fatto è che i concorrenti sono stati a loro volta spettatori del programma nelle precedenti edizioni, e hanno dunque adottato il particolare idioletto che lo caratterizza, con le sue espressioni fisse («What does MasterChef mean to you? – It means everything/the world!» in tutte le più improbabili pronunce regionali) e i suoi criteri di valutazione che a volte sono un po’ tagliati con l’accetta: è bene che le patate fritte, ma anche un tortino al cioccolato, ma anche una cotoletta alla milanese, siano «crunchy on the outside, still moist on the inside» (davvero? e il Tronky allora?), e che tutto, anche un tramezzino tonno e pomodoro, deve essere «took to the next level», perché «cooking doesn’t get tougher than this».

Il bello è che questo repertorio di frasi fisse è pure annunciato nella sigla di apertura, così puoi proprio mettere il cervello in stand-by finché le frasi non sono pronunciate, come lucette rosse che si accendono su un display, o una scossa elettrica di defibrillatore per rianimarti quel tanto che basta.

Ed ecco allora la ragione del mio straniamento, che vale per MasterChef ma anche per tutti gli altri programmi del genere. Guardi le immagini, ascolti quello che si dicono i personaggi, ma in realtà niente di tutto quello che si dice importa davvero, perché tutte le espressioni sono, se non intercambiabili, riutilizzate all’infinito in ogni contesto, tanto che è impossibile prenderle sul serio. Si tratta di un vocabolario ridotto all’osso, estremamente pratico ma privo di contenuto espressivo o affettivo. In definitiva, di qualsiasi capacità di veicolare un messaggio e, quindi, di descrivere una realtà. Ma capace di formattare il tuo cervello e di uscire fuori dalla tua bocca in qualsiasi momento, dando corpo a quanto dice il filosofo: noi siamo parlati dal linguaggio, noi siamo i medium attraverso il quale il linguaggio stramorto dei reality dilaga, come gli zombie, nella realtà. Forse anche il credit crunch è tenero e morbido on the inside, e tutti i nostri timori sono infondati.

lunedì 5 settembre 2011

Gli animali ci guardano


La vita di tutti i giorni offre a chi le sa cogliere infinite possibilità di riflettere sul senso delle cose. Eccone dunque una. La carta igienica, a casa nostra, entra in pacchi da minimo venti rotoli. Spesso due pacchi alla volta, perché due costano meno che uno. Penso che la cubatura del bagno si espanda in ossequio a qualche legge della fisica quantistica in presenza di quantità elevate di carta igienica, perché abbiamo un bagno minuscolo ma i pacchi-mostro che compriamo è come se non si vedessero. Insomma, una volta superato il momento urgente in cui bisogna correre a comprare la carta igienica, la coscienza di essere gli abbienti possessori di quaranta rotoli di carta igienica ci permette di arrivare beati alla prossima emergenza.

Ma non è questa la riflessione che facevo oggi. Tornato a casa, due enormi pacchi troneggiavano in quello che chiamerò il tinello di casa nostra. Forse a causa delle dimensioni – è come avere in casa due cartelloni pubblicitari da autostrada – mi sono chiesto per la prima volta: ma cosa c’entra quel cane con la carta igienica?
Non capisco come mai, da decenni, cani, gatti e animali di pelo preferibilmente bianco vengono associati con la carta igienica. In un dialogo forbito degno di Platone, T. sosteneva che la spiegazione sta nel legame tra la morbidezza del pelo e la tenerezza indifesa di questi animali – in genere cuccioli dall’occhio languido – e la morbidezza e candore della carta.


Ma allora io – pensando ad usi e funzioni della stessa – dico che ancor più sotto ci dev’essere un istinto represso sadico e crudele nei confronti dei poveri animali, che a decine ci guardano indifesi dalle pile di involucri biodegradabili sugli scaffali del supermercato.

venerdì 2 settembre 2011

La moda ha le sue ragioni, che le stagioni spesso non conoscono

Lasciamo Pascal rivoltarsi nella tomba, e contempliamo questa meraviglia, questo oggetto che, come il mare d’inverno, la mente non considera : una t-shirt con sciarpa annessa. Non voglio dire un coordinato sciarpa-t-shirt (di per sé di dubbia utilità), proprio una maglietta alla quale qualcuno ha pensato bene di cucire una sciarpa.
Sono pronto ad ammettere che, al momento dell’acquisto, non ero nel pieno possesso delle mie facoltà, perché sono tornato a casa piuttosto contento. Ma dopo alcuni tentativi di drappeggiare la sciarpa al mio collo, sono caduto nello sconforto: da trend-setter a vittima di un raggiro peggiore dello scioglipancia di Wanna Marchi*. E da quasi due mesi medito se separare o meno le due componenti di questo innaturale ircocervo, inutile tanto in estate quanto in inverno.
Quanto a indossare la t-shirt, non ne parliamo nemmeno: è passata indenne dal negozio, all’armadio, alla valigia delle vacanze, all’armadio, al mio letto, al pavimento.

domenica 28 agosto 2011

Gagalandia (Il buon blog si vede dal primo post)


Qualche tempo fa leggevo un’intervista a Lady Gaga, nella quale, a un intervistatore sempre più vittima della sindrome di Stoccolma, venivano date risposte deliranti sulla comunione mistica (aka circonvenzione d’incapace) tra la cantante, nella sua qualità di Mother Monster, e i suoi fans, Little Monsters*.

A nessun altro, sentendo parlare dei Little Monsters, vengono in mente Renato Zero e i suoi Sorcini*?