Mentre la finanza europea corre verso il baratro,
e il calendario mi spinge allegramente verso la disoccupazione, perdiamo per un
istante di vista il pane e occupiamoci delle brioches.
Da tre settimane stiamo guardando l’ennesima
edizione di MasterChef. Che si tratti della versione celebrity per noi non cambia niente, perché,
ovviamente, le celebrities sono a malapena conosciute nel
loro paese di origine. (Ovviamente, nell’introduzione i giudici dicono che
«these celebrities have already reached the top of their professions», ma
finora solo in due casi – un ex atleta olimpico e il batterista dei Supergrass
– la professione in questione era diversa da starlette/concorrente di altri reality/tv personality [?]).
Dopo varie serie guardate con entusiasmo, comincio
a sperimentare un po’ di straniamento rispetto allo show. Le principali
attrattive di MasterChef (ovviamente tutto questo cambierà nella versione
italiana) sono un’assoluta mancanza di melensi background, una quasi totale
assenza di lacrime, un montaggio molto serrato, che in genere lascia poco
spazio alle parole in favore della visualizzazione della preparazione delle
ricette, interrotte qua e là da brevi interviste in itinere agli aspiranti cuochi da parte dei due
giudici.
In questo pregio formale è però anche il limite di
MasterChef, la ragione del mio progressivo straniamento. Lo spazio limitato
accordato agli interventi parlati, infatti obbliga per forza di cose alla
sintesi estrema delle domande e delle risposte. Ma il problema della sintesi
non è risolto – o non lo è più – con una ricerca di concisione significativa,
bensì con una sorta di formularità delle domande e delle risposte da fare
invidia alla tradizione epica da Omero in poi.
A volte penso che sarei in grado di doppiare gli
episodi senza sapere chi siano i concorrenti né cosa stiano cucinando. Sembra,
per esempio, che per obbligo contrattuale la frase «the pressure is on!» debba
essere ripetuta (con alcune variazioni) un certo numero di volte da personaggi
diversi nel corso di una puntata. Nella prima settimana, quando c’era una
concorrente particolarmente incline alla ripetizione, abbiamo contato almeno 6
«the pressure is on!» su 45 minuti. Roba che, se la prendessi sul serio, ti
farebbe venire un infarto.
Il fatto è che i concorrenti sono stati a loro
volta spettatori del programma nelle precedenti edizioni, e hanno dunque
adottato il particolare idioletto che lo caratterizza, con le sue espressioni
fisse («What does MasterChef mean to you? – It means everything/the world!» in
tutte le più improbabili pronunce regionali) e i suoi criteri di valutazione
che a volte sono un po’ tagliati con l’accetta: è bene che le patate fritte, ma
anche un tortino al cioccolato, ma anche una cotoletta alla milanese, siano «crunchy on the outside, still moist on the inside» (davvero? e il Tronky allora?), e che
tutto, anche un tramezzino tonno e pomodoro, deve essere «took to the next
level», perché «cooking doesn’t get tougher than this».
Il bello è che questo repertorio di frasi fisse è
pure annunciato nella sigla di apertura, così puoi proprio mettere il cervello
in stand-by finché le frasi non sono pronunciate, come lucette rosse che si
accendono su un display, o una scossa elettrica di defibrillatore per rianimarti
quel tanto che basta.
Ed ecco allora la ragione del mio straniamento,
che vale per MasterChef ma anche per tutti gli altri programmi del genere.
Guardi le immagini, ascolti quello che si dicono i personaggi, ma in realtà
niente di tutto quello che si dice importa davvero, perché tutte le espressioni
sono, se non intercambiabili, riutilizzate all’infinito in ogni contesto, tanto
che è impossibile prenderle sul serio. Si tratta di un
vocabolario ridotto all’osso, estremamente pratico ma privo di contenuto
espressivo o affettivo. In definitiva, di qualsiasi capacità di veicolare un
messaggio e, quindi, di descrivere una realtà. Ma capace di formattare il tuo
cervello e di uscire fuori dalla tua bocca in qualsiasi momento, dando corpo a
quanto dice il filosofo: noi siamo parlati dal linguaggio, noi siamo i medium
attraverso il quale il linguaggio stramorto dei reality dilaga, come gli
zombie, nella realtà. Forse anche il credit crunch è tenero e morbido on the inside, e tutti i nostri
timori sono infondati.