domenica 2 ottobre 2011

Croccante fuori, morbido dentro





Mentre la finanza europea corre verso il baratro, e il calendario mi spinge allegramente verso la disoccupazione, perdiamo per un istante di vista il pane e occupiamoci delle brioches.

Da tre settimane stiamo guardando l’ennesima edizione di MasterChef. Che si tratti della versione celebrity per noi non cambia niente, perché, ovviamente, le celebrities sono a malapena conosciute nel loro paese di origine. (Ovviamente, nell’introduzione i giudici dicono che «these celebrities have already reached the top of their professions», ma finora solo in due casi – un ex atleta olimpico e il batterista dei Supergrass – la professione in questione era diversa da starlette/concorrente di altri reality/tv personality [?]).

Dopo varie serie guardate con entusiasmo, comincio a sperimentare un po’ di straniamento rispetto allo show. Le principali attrattive di MasterChef (ovviamente tutto questo cambierà nella versione italiana) sono un’assoluta mancanza di melensi background, una quasi totale assenza di lacrime, un montaggio molto serrato, che in genere lascia poco spazio alle parole in favore della visualizzazione della preparazione delle ricette, interrotte qua e là da brevi interviste in itinere agli aspiranti cuochi da parte dei due giudici.

In questo pregio formale è però anche il limite di MasterChef, la ragione del mio progressivo straniamento. Lo spazio limitato accordato agli interventi parlati, infatti obbliga per forza di cose alla sintesi estrema delle domande e delle risposte. Ma il problema della sintesi non è risolto – o non lo è più – con una ricerca di concisione significativa, bensì con una sorta di formularità delle domande e delle risposte da fare invidia alla tradizione epica da Omero in poi.

A volte penso che sarei in grado di doppiare gli episodi senza sapere chi siano i concorrenti né cosa stiano cucinando. Sembra, per esempio, che per obbligo contrattuale la frase «the pressure is on!» debba essere ripetuta (con alcune variazioni) un certo numero di volte da personaggi diversi nel corso di una puntata. Nella prima settimana, quando c’era una concorrente particolarmente incline alla ripetizione, abbiamo contato almeno 6 «the pressure is on!» su 45 minuti. Roba che, se la prendessi sul serio, ti farebbe venire un infarto.

Il fatto è che i concorrenti sono stati a loro volta spettatori del programma nelle precedenti edizioni, e hanno dunque adottato il particolare idioletto che lo caratterizza, con le sue espressioni fisse («What does MasterChef mean to you? – It means everything/the world!» in tutte le più improbabili pronunce regionali) e i suoi criteri di valutazione che a volte sono un po’ tagliati con l’accetta: è bene che le patate fritte, ma anche un tortino al cioccolato, ma anche una cotoletta alla milanese, siano «crunchy on the outside, still moist on the inside» (davvero? e il Tronky allora?), e che tutto, anche un tramezzino tonno e pomodoro, deve essere «took to the next level», perché «cooking doesn’t get tougher than this».

Il bello è che questo repertorio di frasi fisse è pure annunciato nella sigla di apertura, così puoi proprio mettere il cervello in stand-by finché le frasi non sono pronunciate, come lucette rosse che si accendono su un display, o una scossa elettrica di defibrillatore per rianimarti quel tanto che basta.

Ed ecco allora la ragione del mio straniamento, che vale per MasterChef ma anche per tutti gli altri programmi del genere. Guardi le immagini, ascolti quello che si dicono i personaggi, ma in realtà niente di tutto quello che si dice importa davvero, perché tutte le espressioni sono, se non intercambiabili, riutilizzate all’infinito in ogni contesto, tanto che è impossibile prenderle sul serio. Si tratta di un vocabolario ridotto all’osso, estremamente pratico ma privo di contenuto espressivo o affettivo. In definitiva, di qualsiasi capacità di veicolare un messaggio e, quindi, di descrivere una realtà. Ma capace di formattare il tuo cervello e di uscire fuori dalla tua bocca in qualsiasi momento, dando corpo a quanto dice il filosofo: noi siamo parlati dal linguaggio, noi siamo i medium attraverso il quale il linguaggio stramorto dei reality dilaga, come gli zombie, nella realtà. Forse anche il credit crunch è tenero e morbido on the inside, e tutti i nostri timori sono infondati.

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